Speranza e accettazione
Secondo quello che conosciamo dalla psicologia degli enneatipi, il carattere nasce in ognuno di noi in seguito a un necessario processo di adattamento che abbiamo appreso nel corso dei primi anni della nostra vita, in primis nell’ambito della nostra famiglia di origine e in relazione alle prime esperienze sociali. Questo apprendimento forma le basi della nostra identità; le esperienze successive della nostra vita potranno modificare le forme e i confini della nostra identità, ma non le sue caratteristiche di fondo. Sarebbe come dire che non possiamo essere diversi da ciò che siamo, o perlomeno da ciò che crediamo di essere. Credo sia un’esperienza comune quella di avere la sensazione che, nei vari momenti della vita, sia pur attraverso esperienze differenti, belle o brutte che siano state, siamo tuttavia coscienti di aver affrontato l’esistenza più o meno sempre con lo stesso atteggiamento: a volte più rilassato e ottimista, a volte più esasperato e pessimista, ma in fondo sempre con la stessa aspettativa nei confronti dell’esistenza e di noi stessi. Che speranze abbiamo di un cambiamento, se così stanno le cose? Come è possibile vedere diversamente le cose se quella che abbiamo è l’unica visione possibile, perché è quella con la quale abbiamo appreso a stare al mondo?
La psicoterapia ha spesso suggerito che prendere coscienza di come funzioniamo, di qual è l’atteggiamento che abbiamo sviluppato nei confronti di noi stessi, degli altri e della vita, sarebbe già un efficace maniera per distaccarsi, prendere le distanze dal nostro carattere; questa affermazione acquisisce però un valore ancor più profondo se, questo prendere coscienza, non si ferma solo a livello razionale, ma riesce a percepire anche a livello emozionale ed esistenziale le implicazioni che il nostro modo di vedere la vita ha per ognuno di noi. Ad esempio, io posso prendere coscienza di come il mio carattere mi ha condizionato, più o meno nello stesso modo nelle varie epoche della mia vita, ponendo sempre in primo piano ad esempio dubbi, sensi di colpa, preoccupazioni, aspettative nei confronti di me stesso, richieste di dare una risposta definitiva e funzionale a tutti questi problemi; se questo è un primo passo necessario, non è tuttavia detto che sia di aiuto, perché infatti vedermi in questo modo potrebbe ancor di più accentuare il mio pessimismo rispetto a un cambiamento.
Forse accade qualcosa di diverso se riesco a cogliere le implicazioni emotive ed esistenziali di un tale modo di vedere la vita, ossia in altre parole se riesco a vedere come questo atteggiamento mi ha reso e mi rende scontento, incapace di godere appieno la vita, di dare espressione piena alla mia creatività e ai miei desideri. Se riesco a cogliere davvero questo aspetto, probabilmente ne conseguirà un profondo senso di dispiacere e rammarico per le molte occasioni perdute nella vita e, più in generale, per tutte quelle che sto continuando a perdermi. Se non fuggo da questa consapevolezza, che a tratti può essere anche molto dolorosa, è probabile che, toccando il fondo di questo dispiacere, cominci ad emergere un nuovo punto di vista, ossia l’assurdità di questa visione del mondo, l’arroganza di una abitudine nei confronti della vita che si propone come unica, indiscutibile, immodificabile. In altre parole, potrebbe nascere una nuova voglia di mettere in discussione che questo sia l’unico punto di vista possibile sul mondo. Questa esperienza costituisce il vero punto di forza di un cambiamento; la messa tra parentesi, come direbbe Husserl, dei propri preconcetti, esperienze, convinzioni nei confronti della vita, costituisce un momento indispensabile per accogliere il nuovo; senza questa epochè non potrebbe esserci alcun cambiamento.
Per poter operare una epochè rispetto al nostro modo di vedere il mondo, occorre però in qualche modo essere curiosi, o per lo meno aver voglia di scoprire qualcosa di diverso, una voglia che può nascere anche dalla noia o talvolta dalla disperazione che emerge quando ci rendiamo conto di essere sempre uguali a noi stessi. In questo senso uno stato depressivo potrebbe essere visto anche come la rinuncia all’idea che le cose possano essere diverse da come le vediamo; una resa incondizionata al carattere, una rinuncia a qualsiasi nuova possibilità o, In altre parole, la perdita di ogni speranza di cambiamento: o meglio l’incapacità di pensarsi in un’altra prospettiva esistenziale, di elaborare il lutto della perdita invalidante della propria prospettiva dell’esistenza.
D’ altra parte la speranza, la curiosità, l’apertura al cambiamento, per esistere necessitano che non veniamo del tutto invasi dal nostro carattere, che non rinunciamo a cercare qualcosa di diverso. Quando il carattere collassa su se stesso infatti perdiamo interesse per la vita, perché tutto avviene sempre nello stesso modo e perfino le cose piacevoli diventano noiose perché l’esperienza del piacere avviene sempre nello stesso modo, con lo stesso atteggiamento. Se riuscissimo a guardare alle esperienze della vita con gli occhi di un bambino che sperimenta per la prima volta una nuova esperienza, molto probabilmente saremmo meno adattati alla vita che c’è richiesto ogni giorno di fare, ma nello stesso tempo forse molto più speranzosi e curiosi e quindi più aperti a possibili cambiamenti.
Claudio Billi
“Sentendo nuova forza: Il dottore sbarra la porta alla morte, la musica aiuta anche nel momento del bisogno”. Sono le parole di L.V.Beethoven che dedica la sua “Canzona di ringraziamento in modo lidico offerta alla divinità da un guarito” al suo medico curante. Una esperienza di speranza e di accettazione.