L’utopia dell’interiorità
Aspettiamo ancora una rivoluzione?
“Siamo nel bel mezzo di una rivoluzione” scrive Claudio Naranjo, “ma non la riconosciamo come tale, perché non è come la aspettavamo (…) Da una parte abbiamo conosciuto, finora, soltanto rivoluzioni politiche e ideologiche mentre ciò che sta avvenendo è una rivoluzione della coscienza” (1)
Oggi una rivoluzione non è possibile, “risponde” Byung Chul Han, nonostante il divario tra i poveri e i ricchi stia ancora enormemente aumentando nel mondo perché “il potere stabilizzante non è più repressivo, bensì seduttivo, e non è più così visibile come sotto il regime disciplinare (…) Oggi ciascuno è un operario che si sfrutta da solo, per cui la lotta di classe si è trasformata in lotta interiore” (2)
Seguendo quest’ultima affermazione forse allora una nuova frontiera rivoluzionaria si sposterebbe verso la risoluzione dei nostri conflitti interiori? Del resto la povertà interiore, come il virus, non fa tante distinzioni: semplicemente è una piaga che affligge tutti. E oltre a una evidente sofferenza manifesta che deriva dalla crescente povertà, ve n’è una latente, che non risparmia nemmeno i benestanti: il vuoto di senso nelle nostre esistenze.
E’ forse per questo che Naranjo, parlando della rivoluzione che stavamo aspettando scrive: “L’avevamo immaginata provocata da noi, mentre sembra stia accadendo per conto proprio (…) visto che l’incoscienza impera nel mondo” proprio come accade in un processo di guarigione in cui l’organismo espelle le tossicità accumulate.
Certamente occorre una bella dose di utopia per pensare che: “Sebbene l’affondamento di questa nave patriarcale in cui ci siamo trovati a navigare non cessi di essere una catastrofe, è però più importante che, attraversando la crisi con fiducia, si comprenda finalmente che i rantolii finali della nostra civiltà sono al contempo la nostra più grande speranza di rigenerazione (…) A differenza di altri periodi nei quali un comportamento rivoluzionario significava un’opposizione ai nemici del bene comune (..oggi..) sembra che la priorità sia per la comunità di farsi carico di ciò che le istituzioni tradizionali hanno tralasciato” (3), ossia una “politica della coscienza”.
La coscienza ha però una sete profonda di silenzio, di ascolto, di respiro contemplativo: cresce male nell’inquinamento acustico e nell’ ”infinitamente possibile” venduto dalla rete. Imparare ad ascoltarsi potrebbe quindi essere oggi un fondamentale atto rivoluzionario
Occorre certamente una bella dose di utopia per crederlo, anche perché la politica mondiale ha bisogno della nostra scarsa consapevolezza e opera affinchè continuiamo a essere sempre più incapaci di pensare, sentire, desiderare, per conto nostro.
Siamo ancora capaci di un’utopia?
Scrive ancora Naranjo: “Il sociologo cileno Antonio Elizalde ha paragonato la sparizione del pensiero utopico al processo di ammaestramento delle pulci (..che..) imparano a fare solo piccoli balzi per soffrire meno (….) le utopie ci servono per avanzare e la rinuncia al pensiero utopico è paralizzante” (4).
Ma quali possono essere oggi i bisogni che ispirano un’ “utopia”? Questa domanda contiene un implicito preliminare: che l’utopia, lungi dall’essere un sogno, appartenga piuttosto al regno della praxis. In caso contrario ne snatureremmo il potenziale rivoluzionario, relegandola al mondo dell’immaginario (come sostiene Lukàcks nella sua polemica contro Lo spirito dell’utopia di Ernst Bloch). L’utopia ha infatti interpretato sempre un bisogno che già era presente in una determinata epoca storica: nella Repubblica di Platone, all’apice dello splendore e nello stesso tempo alle soglie della perdita dell’indipendenza greca, era ad esempio il rapporto tra il Bene e la Politica, che si perderà irrimediabilmente nella successiva decadenza della cultura greca; nella Nuova Atlantide di Francis Bacon, era l’ idea di una società retta dagli scienziati, che anticipava le nuove istanze della Rivoluzione Scientifica; nella Città del Sole di Tommaso Campanella e in Utopia di Thomas Moore, era il tema della tolleranza religiosa, così fortemente sofferto nell’età della Controriforma, visto attraverso il rapporto tra il governo e la religione.
Qual è dunque un bisogno oggi già presente, che l’utopia potrebbe interpretare? La civiltà attuale sta distruggendo sistematicamente l’interiorità: questo è sotto gli occhi di tutti e non richiede alcuna “prova scientifica”. Rimettere al centro il bisogno di guardare all’interno di se stessi, di ritrovarsi, di liberarsi dall’isolamento narcisistico che così pesantemente ci condiziona nella relazione con l’”alterità”, potrebbe essere dunque un bisogno su cui costruire oggi un’ utopia rivoluzionaria? Potremmo pensare al silenzio e all’interiorità come a un alimento essenziale per una rinascita dell’ amore, della libera espressione artistica e culturale, ma soprattutto della “trasmissione di umanità” attraverso la riscoperta del valore delle relazioni nella vita?
Il valore rivoluzionario dell’interiorità
Se non è più possibile una rivoluzione che parta dal collettivo, forse dobbiamo ripartire dall’individuo, non dal soggetto produttore tipico del neoliberismo, quanto dall’uomo nella sua costante e ineludibile ricerca di senso.
Appassionarsi di sé, invece che dell’esteriorità, è la condizione imprescindibile per un viaggio interiore, spirituale, ma anche per la psicoterapia stessa, se non vogliamo che si riduca a banale ricetta per la sopravvivenza quotidiana o per la gestione dei sintomi. E’ giunto il momento di fermarci e uscire da un sonno profondo. Per farlo dobbiamo però praticare, almeno un po’, le tre regole basiche di ogni cammino spirituale: fuggire dall’esteriorità (l’esperienza del “deserto”), rimanere nel silenzio (si tace per “farsi capaci di Dio”) e cercare la pace interiore (la pace del cuore) (5).
Kabat-Zinn parla di “tecniche” a proposito della Mindfulness: credo che l’atto del non fare, l’attesa, l’ascolto, il vuoto, il distacco, attitudini che stanno alla base di ogni esperienza meditativa, siano ben altro che “tecniche”. Hanno il valore di un’utopia rivoluzionaria.
Simone Weil afferma che ciò che è sacro non è la persona, ma ciò che in un essere umano è impersonale: tuttavia il passaggio nell’impersonale è possibile solo nella solitudine. La persona partecipa del sacro più della collettività: “Non solo la collettività è estranea al sacro, ma fuorvia procurandone una falsa imitazione (…) L’essere umano non sfugge al collettivo se non elevandosi al di sopra del personale e penetrando nell’impersonale” (6). Cioè entrando prima di tutto nel silenzio. Invece di parlare troppo: come se ogni volta fosse in gioco la propria esistenza. Se non parli, se non ti mostri, se non partecipi, non esisti: quanto siamo lontani da Descartes, a cui bastava un semplice “cogito” per esistere! Arriveremo mai a immaginare una imposta sull’eccesso di parola? Soprattutto su quelle inutili?
Ma anche questo è ormai sotto gli occhi di tutti e non servono prove scientifiche… i dibattiti annoiano, sono prevedibili, esteticamente deludenti. Forse già siamo più avanti di quanto sembri. Manca ancora però la fiducia che possiamo trovare nel silenzio qualcosa di estremamente prezioso: l’incontro con noi stessi e al di là della nostra persona, con l’impersonale.
Potrebbe essere questo il bisogno, già presente, che un’utopia potrebbe oggi interpretare?
Del resto, come ricorda più volte Claudio Naranjo “E’ necessario cambiare se stessi per cambiare il mondo”: e questo è chiaramente il valore rivoluzionario di un ritorno all’interiorità.
Imparare a vedere
Può un’utopia promettere la felicità? Innanzitutto dovremmo pensare che la felicità non sia un possesso, né una proprietà privata, altrimenti finiremmo inevitabilmente con il riconoscere alla forza il ruolo di regolatrice dei rapporti umani, con le inevitabili conseguenze che ogni giorno apprendiamo circa il precario stato di salute del nostro mondo malato.
Del resto è sempre più difficile pensare alla felicità degli individui in mezzo all’infelicità delle masse e al “disagio” di un’intera civiltà: la pandemia in questo senso ha dato una lezione chiara circa la speranza di salvarsi da soli.
Una politica della coscienza dovrebbe dunque aiutarci a uscire dall’individualismo e a sviluppare un’etica della responsabilità che guardi anche verso le generazioni future, se vogliamo davvero affrontare, tra gli altri, anche il problema climatico ed ecologico.
Tornare a dare un valore alle relazioni sembra davvero essere una strada obbligata: un bisogno già così presente che forse basterebbe solo un po’ di silenzio perché prendesse forma. Siamo ipnotizzati dal rumore: ma forse l’interruttore per spegnerlo è più vicino di quanto pensiamo…
Infatti: “Se vogliamo arrivare ad essere più amorosi verso il prossimo prima di tutto dobbiamo imparare ad amare noi stessi” (7), e per farlo dobbiamo ritrovarci.
Ma non possiamo ritrovarci distraendoci: se l’ homo laborans ha gonfiato il nostro ego fino all’onnipotenza, l’ homo ludens è tossico e vuoto. Non può essere una alternativa. Recuperare il senso profondo della contemplazione potrebbe piuttosto essere oggi un atto rivoluzionario.
Nel Crepuscolo degli idoli Nietzsche descrive l’imparare a vedere come un “assuefare l’occhio alla calma, alla pazienza, al lasciar venire a sé”. Questo “imparare a vedere” sarebbe la prima istruzione alla spiritualità. Si dovrebbe imparare a non reagire subito: reagire immediatamente e seguire ogni impulso sarebbe già una malattia, una decadenza, un sintomo di esaurimento.
La contemplazione è una esperienza interiore dal forte valore spirituale in quanto ci mette in contatto con il senso della totalità, senza desiderio di possederla o di dominarla. Tornare all’interiorità e all’esperienza del contemplare potrebbe dunque essere l’utopia e la battaglia culturale da opporsi oggi all’ipnosi dell’intrattenimento promossa dal mercato digitale.
Claudio Billi
Brano proposto per l’ascolto
“Il silenzio è la pausa in me quando sono vicino a Dio (…) Ho scoperto che è sufficiente quando una singola nota è ben suonata. Questa singola nota, o un battito silenzioso, o un momento di silenzio mi conforta” (8)
Silentium è il secondo movimento di Tabula Rasa (1977) del compositore estone Arvo Pärt, uno dei maggiori esponenti del “Sacro Minimalismo”, movimento classico occidentale contemporaneo, caratterizzato da una filosofia compositiva minimalista e da una ispirazione mistico-religiosa.
NOTE.
(1) C. Naranjo, La rivoluzione che stavamo aspettando, Terra Nuova Edizioni, Firenze, 2014 (p.4)
(2) Byung Chul Han, Perché oggi non è possibile una rivoluzione, Ed. Nottetempo, 2022 (p.5-6)
(3) C. Naranjo, cit. (p.8)
(4). C.Naranjo, cit. (p.4)
(5). P.Scquizzato, Se non lo cerchi lo trovi”, Paoline Editoriale, 2023 (p. 26)
(6). S.Weill, La persona e il sacro, Adelphi, 2012 (pp. 20-22)
(7). Claudio Naranjo, cit. (p.66)
(8). https://www.theculturium.com/arvo-part-silentium/