Inadattabilità e originalità.

L’inadattabilità tra narcisismo e originalità.

Che cosa esprimiamo esistenzialmente quando diventiamo distruttivi, disfattisti, inadattabili? Il concerto di adattabilità è un’arma a doppio taglio: se da una parte costituisce un aspetto di resilienza indispensabile per la sopravvivenza, dall’altra ci spinge a una rinuncia ai valori forti, al pathos e alle convinzioni ideali che dovrebbero invece colorare la nostra esistenza. L’individuo troppo adattato diventa così conformista, si perde nella massa, perde il senso dell’. esistenza.

Non è un caso che la cultura angloamericana proponga sempre di più stereotipi di adattamento sociale che passano attraverso l’aspetto fisico, il comportamento, la gestione delle emozioni, fino al paradosso per cui, secondo una certa psichiatria, non saremmo nemmeno più liberi di piangere per troppo tempo, perché in sospetto di sviluppare uno stato depressivo, e quindi nella necessità di curarsi. Il fatto che case farmaceutiche che hanno commercializzato vaccini per il Covid, siano in alcuni casi anche quelle che, a loro tempo hanno commercializzato farmaci antidepressivi come il Prozac, la dice lunga sulle ombre lunghe che si celano dietro il fantasma dell’ iper adattamento sociale, un vero e proprio attentato alla nostra unicità esistenziale.

D’altra parte è indubbio che l’adattamento è pure necessario, e che l’inadattabilità costituisce un elemento problematico e spesso di sofferenza psicologica; quando la vita ci pone di fronte un “NO” non negoziabile, spesso reagiamo negando l’evidenza, manifestando rabbia per la nostra impotenza, o rifugiandoci in atteggiamenti distruttivi e disfattisti del tipo: “se la mia vita deve essere questa, preferisco non vivere”.

Elisabeth Kubler Ross1 nei suoi studi sul lutto, parla della capacità di negoziare con la vita come di una delle capacità fondamentali che ci aiutano ad elaborare il lutto. Negoziare con la vita significa accettare un limite; spesso questo limite però non riguarda la vita reale, quanto l’immagine di noi stessi alla quale siamo così narcisisticamente legati, che non riusciamo a modificare nemmeno in parte ; l’IO grandioso, l’”Egosauro” come direbbe Rovatti2, non accetta ridimensionamenti di nessun tipo.

Quando la prospettiva esistenziale, così come viene sponsorizzata dal nostro io ipertrofico, collassa a causa di una invalidazione che la vita ci pone, ci troviamo di fronte a un bivio: o alzare la posta in gioco e gonfiare a tutti i costi il proprio Ego, includendo la disperazione e la distruttività, continuando così a negare il limite, o sopportare la dolorosa ferita narcisistica di non essere onnipotenti, di non avere nessun potere sull’ esistenza se non quello di viverla, lasciarvisi fluire senza alcun controllo.

La paura del caos è una delle più forti che agitano l’angoscia interiore; molte delle nostre reazioni psicologiche, dal senso di colpa alla negazione distruttiva, hanno come funzione e finalità quella mantenere un ipotetico controllo su qualcosa che non possiamo in nessun modo controllare e cioè la vita stessa. Un anno di Covid avrebbe dovuto insegnarcelo ma a quanto pare siamo ancora nella negazione- rabbia-depressione più che nella integrazione di un senso diverso dell’esistenza.

1 E.Kubler Ross, Impara a vivere impara a morire. Riflessioni sul senso della vita e sull’importanza della morte, Gruppo Editoriale Armenia S.p.A, 2001.
2 Pier Aldo Rovatti, Gli Egosauri. Ed.Elèuthera, 2019.

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Ma perché è così difficile modificare l’Egosauro che è in noi? Probabilmente perché non siamo sufficientemente consapevoli del costo del suo mantenimento, del cibo che gli è necessario per mantenersi in vita e che momento dopo momento ci reclama nella sua costante ingordigia. Se fossimo più consapevoli di questo costo, probabilmente potremmo vedere un ridimensionamento del nostro Ego anche come un sollievo, invece che come una ferita mortalmente dolorosa. Ciò non significa però iper-adattarsi: il sacrificio narcisistico non coincide necessariamente con il conformismo, con l’ addormentamento della coscienza, con la rinuncia; coincide piuttosto con l’ innalzamento di un livello di coscienza che rende più possibile un movimento interiore. Il movimento è possibile laddove l’ attaccamento non è disperante, laddove possiamo tollerare che qualcosa di noi muoia perché qualche cos’altro rinasca, laddove immaginiamo più che uncambiamento, come dice Claudio Naranjo, una trasformazione. Nel cambiamento è implicita una perdita: nella trasformazione una continuità.

Per dirla in sintonia con la lettura kantiana di Pietro Chiodi3, nel processo di trasformazione l’accettazione del limite diventa nello stesso tempo l’affermazione di un nuovo senso e validità del limite stesso: il cambiamento annulla, la trasformazione integra. Scoprire che io non sono quello che credevo di essere, ambivo ad essere, speravo di essere, può così avviare una esperienza di lutto la cui elaborazione ci potrà portare a una integrazione della coscienza a un livello più complesso e più profondo.

Claudio Billi

L’itinerario artistico di Astor Piazzolla può ben essere preso ad esempio della dialettica tra “inadattabilità e originalità”: amato per la sua originalità, odiato per la sua inadattabilità alla tradizione, non ha cercato, nella sua vita, mezze misure…

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3 Pietro Chiodi, Esistenzialismo e filosofia contemporanea, a cura di G.Cambiano, Pisa, Ed. della Normale, 2007.

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