Il colore giallo dei sentimenti

Shakespeare al semaforo.

Se oggi Shakespeare fosse vivo, sarebbe forse incuriosito dai vari bivi che dividono la nostra esistenza quotidiana, come ad esempio il giallo del semaforo: “Passare o non passare? Questo è il dilemma…”.

L’art. 41 del Codice della strada dice che ci si deve fermare col giallo, a meno che sia impossibile arrestarsi in condizioni di sufficiente sicurezza; non è comunque indicato un tempo di durata minima del giallo e solo una nota successiva stabilisce che debba essere di almeno 3 secondi prima che scatti l’eventuale sanzione.

E con ciò si apre l’universo del possibile: il giallo è il possibile. Inutile ridurlo a rosso o a verde: il caos del possibile irrompe nel fortino, apparentemente imprendile, della certezza.

Il giallo è una metafora della presenza e della responsabilità verso gli altri: il giallo è pura etica!

Perché allora tentare di “snaturarlo” ingabbiandolo in una magmatica nuvola di casistiche che non colmano affatto il possibile? Temo che la risposta sia che l’etica è scomoda. Richiede che ci facciamo delle domande rinunciando a risposte immediate e chiare, che ci mettiamo in discussione, che accettiamo di procedere nel dubbio: insomma troppa fatica e troppo tempo in un mondo che vuole risposte facili, chiare e veloci. Meglio il rosso o il verde, con buona pace del disturbo ossessivo compulsivo, che sembra ormai non essere più una patologia, se non, invece, lo stato “normale” della nostra esistenza.

Kenneth W. Heaton ([1]), che ha studiato i personaggi shakesperiani alla luce della psicopatologia, ci mostra Lady Macbeth  che, in seguito ai misfatti compiuti, è consumata dal pensiero delle atrocità commesse e dalla paura di essere scoperta, e reagisce a questi pensieri ossessivi con l’atto di lavarsi ripetutamente le mani dal sangue, chiaro comportamento compulsivo, per cui oggi sarebbe forse in trattamento con anafranil o paroxetina… insomma oggi Shakespeare non sarebbe stato affatto turbato dai sintomi ossessivi indotti dal giallo del semaforo, dato che la follia, nelle sue molteplici forme, ha sempre rappresentato per lui il motore delle sue più grandi tragedie.

Il disturbo ossessivo-sanzionatorio

I sentimenti, rispetto alle emozioni, hanno spesso una funzione simile al giallo: ci introducono in uno spazio/tempo abitabile, ma non sempre definibile. I sentimenti infatti non hanno una natura digitale: hanno bisogno di un processo per evolvere e per indicarci una via di uscita.

Un esempio è l’amarezza: i fautori delle sanzioni semaforiche preferiscono però chiamarla “disturbo da amarezza cronica post-traumatica” (Post-Traumatic Embitterment Disorder, PTED) ([2]), così possono individuare chiari criteri diagnostici e fattori di co-morbidità dato che, secondo le sempre presenti statistiche, il disturbo colpirebbe circa il due per cento della popolazione mondiale. Non manca ovviamente la relativa terapia, che questa volta si baserebbe, per ironia della sorte, sulla “psicologia della saggezza” e sulle “strategie edonistiche”! Si, perché la sindrome in questione, rientrerebbe peraltro nella grande famiglia dei disturbi dell’adattamento… chi avrebbe del resto così poca “saggezza” e così poco edonismo, per sostenere che non sia auspicabile adattarsi all’esistenza che questo mondo ci propone, visto che altrimenti saremmo, con simili criteri diagnostici, tanto facilmente tacciati di “disadattamento”, “stoltezza” e “masochismo”?

C’è poi chi si prende anche la briga di scrivere sugli effetti “contagiosi” dell’amarezza (la lezione del covid è stata evidentemente magistrale..), dando accurati suggerimenti su come non lasciarsi contaminare da tale stato d’animo distruttivo di chi ci sta accanto…

Evviva dunque: un altro sentimento psico medicalizzato da dare in pasto all’intelligenza artificiale!

Ma ricordatevi, cari fautori delle infrazioni semaforiche che “chi di spada ferisce, di spada perisce”: l’Intelligenza artificiale difficilmente svilupperà compassione nei confronti di chi si limita ad applicare “scientifici” protocolli standardizzati e “replicabili”. Sarete tra i primi a salire sul patibolo, anche se io certo non comprerò il biglietto, perché continuando a credere che l’amarezza abbia un senso, la vostra esecuzione avrà comunque per me il triste e amaro sapore di una sconfitta: la sconfitta dell’ “umano”.

Il gusto dell’ amaro

Io invece credo che l’amarezza, prima che una patologia, abbia un profondo senso esistenziale e che dobbiamo ricercare con pazienza, dentro di noi, questo senso: può darsi che ci serva per elaborare una perdita, un lutto, una sconfitta appunto. E non soltanto in una relazione, ma anche con noi stessi, come nel caso di un desiderio che svanisce, di una speranza che si cancella o di una convinzione che non ci rassegniamo ad abbandonare. L’amarezza è un incontro doloroso con la perdita che lascia un segno profondo e che ha il sapore della resa. Ma arrendersi è un processo complesso, che richiede il suo tempo, e che ci costringe a rivedere gran parte delle nostre convinzioni sulla vita: spesso resistiamo a oltranza, diventiamo perfino patetici, prima di ammettere che qualcosa dentro di noi è “morto”.

Per compiere questo complesso processo di elaborazione del lutto abbiamo bisogno di tempo: e non è possibile quantificare con il rosso e il verde del semaforo né il tempo, tantomeno le energie necessarie. A volte non riusciamo ad alzarci dal divano e ogni alternativa, anche quella che poco prima ci sembrava allettante, sembra svuotarsi di senso, perdere i colori e diventare improvvisamente grigia. Possiamo anche percepire che il nostro stato d’animo può essere contagioso e che non ci aiutano affatto le parole dell’altro, anzi ci irritano. Ma se resistiamo alla tentazione psico-medica della “prevenzione, diagnosi e cura” e attraversiamo invece lo spazio/tempo dell’amarezza, arriverà un momento in cui cominceremo a intravedere ciò che sta nascosto dietro, e a cogliere il senso profondo di un cambiamento che non sappiamo prevedere.

Un po’ come con il semaforo giallo, dobbiamo affidarci a noi stessi, ascoltarci, essere presenti, responsabili, svegli. Non esistono certezze, non ci sono navigatori satellitari da seguire: al contrario dobbiamo accettare di sperderci dolorosamente per ritrovarci. E quando ci sperdiamo ci sentiamo soli, come forse accadeva da bambini: attraversare l’amarezza si rivela così, talvolta, un’esperienza regressiva che assume i colori dell’infanzia. Ma questa libertà ha un prezzo, oltre la sofferenza che implica: le telecamere per le infrazioni semaforiche sono infatti sempre più sofisticate e vigilano, tra l’altro, sul nostro umore, oltre che sulla nostra efficienza. Diventeremo presto facilmente sospetti di essere dei malati che non vogliono curarsi, piuttosto che dei cercatori che si pongono una domanda di senso sulla propria e sull’altrui esistenza!

La saggia amarezza

La “psicologia della saggezza e dell’edonismo” dimentica che l’amarezza e la saggezza vanno a braccetto: hanno bisogno l’una dell’altra. Se è necessario vivere a pieno la vita per sviluppare almeno un po’ di saggezza, questa pienezza non può essere solo edonismo, perché, come diceva provocatoriamente Fritz Perls “la vita non è rose e fiori…”.

Dato che non ci può essere saggezza senza amarezza, non ci sarà nemmeno una vera “rinascita” senza attraversare almeno una “morte”: se tentiamo di annullare il dolore non scopriremo mai il senso della perdita e non potremo davvero rinascere.

Se abbiamo solo fretta di reagire, finiremo per ricostruire infatti lo stesso equilibrio che ci ha portati alla delusione e all’amarezza e non trasformeremo di una virgola noi stessi.

Se nelle relazioni ci vergogniamo di essere a volte disfattisti e negativi, la relazione diventerà un “inferno in maschera”, che avrà solo l’effetto di aumentare una solitudine sempre presente dietro la porta.

L’amarezza che ci aiuta a sviluppare un atteggiamento più saggio ci può invece insegnare che il tempo è fatto di perdite, oltre che di incontri e che possiamo sopportare di guardare l’oggi anche con un sorriso malinconico, così come rivolgersi indietro, verso il passato, con uno sguardo non troppo carico di dolore.

Il Nietzsche del racconto di Yalom ([3]), dando finalmente sfogo a tutta la sua amarezza da tanto tempo negata,  confessa: “se una delle mie lacrime fosse dotata di sensi, direbbe… libera finalmente! Imbottigliata per tutti questi anni! Questo uomo, questo uomo arido e angusto, non mi ha mai lasciato scorrere prima d’ora”. Il profeta della volontà di potenza scoprirà così che l’amarezza non è una sconfitta, ma una porta inedita per una esplorazione altrimenti impossibile sul senso dell’esistenza.

 

Brano musicale suggerito per l’ascolto.

La Seconda Sinfonia fu composta da Schumann in un periodo particolarmente difficile a causa della malattia mentale che si era manifestata poco tempo prima e che lo avrebbe condotto lentamente a una morte prematura. In una lettera indirizzata a Mendelssohn nel settembre del 1845, Schumann scrive: “Tutto lo scrivere è un duro sforzo per me… Io ho prurito e spasimi ogni giorno in un centinaio di luoghi diversi. Un misterioso lamento, ogni volta che il medico cerca di mettere il dito nella piaga, sembra prendere le ali. Ma tempi migliori torneranno; e guardare mia moglie e i bambini è una grande gioia”. Eppure pochi mesi dopo Schumann compose in poco tempo un’opera capace di toccare punte altissime di poesia e a tratti di pace: un superamento delle durissime sofferenze di quel periodo infelice. Ascoltiamo qui il terzo movimento, l’ Adagio espressivo.

https://youtu.be/R2RNK1hKd1U

[1] Kenneth W. Heaton, Body-conscious Shakespeare: sensory disturbances in troubled characters, Medical Humanities. 2011, Vol.37- 2.

[2] Linden, M., Baumann, K., Lieberei, B., Lorenz, C., Rotter, M. (2011). Treatment of post-traumatic embitterment disorder with cognitive behaviour therapy based on wisdom psychology and hedonia strategies, Psychotherapy and Psychosomatics , 80(4), 199-205.

[3] I.D. Yalom, Le lacrime di Nietzche, ed. Neri Pozza, 2015, p. 435

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