La musica e l’Amore

Possiamo tornare a sognare o dobbiamo sentirci ormai irrimediabilmente condannati ad obbedire alla mente razionale, al pensiero relativistico e all’idea che già tutto o quasi è stato detto? Per sognare però dobbiamo liberarci dalle catene dei pregiudizi, che ci ancorano a una visione del mondo vuotamente materialistica: visione che ci condanna alla solitudine, alla noia e alla
depressione.
Quando pensiamo alla musica questi interrogativi ritornano prepotentemente: dobbiamo pensare alla musica soltanto come al prodotto di epoche storiche determinate, di mode, di ricerche armoniche che derivano l’una dall’altra, a volte in continuità e a volte in rottura tra di loro?
È vero che la musica è il prodotto di rapporti numerici, come già dicevano i pitagorici, ma Pitagora sosteneva anche che il numero è l’espressione del divino: una corda che vibra è un numero che canta, una matematica che si fa sensoriale, che si manifesta, e dunque che trascende se stessa.
” La funzione più profonda della musica è la trasmissione di vissuti ed esperienze. La trasmissione spirituale è più potente attraverso il suono che attraverso le parole dei mistici. Dunque la musica è una religione nascosta” ; così Claudio Naranjo parla dei grandi compositori come di “santi invisibili”: l’artista è uno che “sente” di più degli altri, perché ha uno spirito da “cercatore”.
Lo sciamano sana le ferite: e l’artista ugualmente sana elaborando un antidoto. Un musicista però non sa che sta facendo: sta apprendendo a soffrire in un modo migliore. Il dolore solitamente ci porta ad un restringimento della coscienza, perché abbiamo troppa paura di soffrire: non sappiamo quanto dolore c’è oltre il dolore già conosciuto. Non sappiamo quanto dolore c’è per
non essere arrivati alla luce, per sentirsi lontani dal divino; un dolore per l’oscurità, un dolore per sentirsi irrealizzati, per sentirsi disconnessi da quello che potevamo essere e non siamo.
Ci sono però forme sublimi di sofferenza, in cui la sofferenza smette di essere solo sofferenza: l’artista soffre mantenendo viva la fiamma dell’Amore, senza che la sofferenza lo faccia disconnettere dalla vita. È un soffrire insieme a una capacità amorosa e di entusiasmo: entrambi nel segno dell’intensità e di una visione cosmica da lontano, distaccata, propria di uno che non è
completamente di questo mondo, che ha l’intuizione che la vita è un sogno.
L’artista, dice Naranjo, ha una certa capacità di farsi niente, come il mistico: il segreto della grande arte è lo stesso del misticismo e l’attitudine dell’artista è la stessa del mistico: cioè non avere attitudine: come dire che trovare L’ ATTITUDINE è come incontrare lo spirito, il divino. Come dice Lao Tse: “il nome dei nomi è innominabile”.
Solitamente nell’arte il valore che si pone in rilievo è la Bellezza, ma la Bellezza senza l’Amore rimane relegata ai canoni estetici, dunque limitata alla cultura e alla storia: possiamo osare un po’ di più?
Platone affronta il tema dell’Eros nel Simposio, dove traccia una vera e propria scala gerarchica dell’Amore, un percorso finalizzato a dimostrare che l’Amore non ha una sola, ma tante forme, ovviamente con una loro gerarchia. Il punto di partenza è la bellezza fisica, che può costituire la via d’accesso a forme di Amore via via più perfette, fino ad arrivare all’idea di Bellezza, e quindi al mondo delle Idee. Contro ogni forma di relativismo di stampo sofistico, Platone rivendica l’esistenza del Bello in sé, quel bello di cui tutte le cose belle partecipano e che è intrinsecamente legato all’idea somma del Bene, che si mostra come Bello nei rapporti sensibili di proporzione, ordine e armonia.
Eros però è figlio di Poro (abbondanza) e Penia (miseria): e queste due dimensioni sono entrambi presenti nella musica che è espressione della sofferenza e dell’Amore al tempo stesso.
La musica è nello stesso tempo la perla e l’ostrica: la perla è una infermità dell’ostrica che l’ostrica non può togliersi; così la isola con una secrezione che è esattamente quello che la rende cosi bella.

Credo quindi che dobbiamo inserire la musica all’interno di una cornice più ampia che è quella della trasformazione interiore, insieme alla meditazione e alla terapia. Parlare di musica solo come arte diminuisce la musica: la sua funzione è più profonda e più potente delle parole. Abbiamo poche parole per indicare ad esempio l’allegria, la malinconia e altri sentimenti: invece le frasi
musicali sono infinite. La musica è più precisa delle parole: ha più sfumature. La musica, insegna ancora Naranjo, è una sorta di religione nascosta, che sta dappertutto: la grande musica non è l’espressione di grandi talenti musicali quanto di geni.
Il genio è un’altra cosa: è qualcuno che ci aiuta a comprendere che il suono non è solo un intermediario per arrivare al divino: ci fa credere, come dicono alcune religioni, che il suono stesso è il divino.
Qual è quindi il potere della musica? Qualcuno ha detto, promuovere la catarsi (Aristotele) o la socialità, o aiutare la liturgia… ma principalmente la musica facilita un processo di sviluppo della coscienza, al di là delle ideologie.
Se la musica è una trasmissione dello spirito, questo in buona parte opera attraverso l’Amore: la musica è perciò, infine, un grande veicolo della compassione e della sacralità. La musica è terapeutica perché è veicolo di Amore: quando ascoltiamo musica stiamo amando un pò di più di quando stiamo nel silenzio.
Come utilizzare dunque la musica? Non utilizzandola: quando si entra in una prospettiva utilitaria già la tradiamo. A partire dal ritmo basico si va delineando questa energia sacra, spirituale che, come la mente profonda, non ha qualità: è come un oceano, una grande forza della natura, una forza amorevole, che proviene da un universo buono. Quando ascoltiamo così la musica dobbiamo interessarci ad ascoltare più profondamente, ma non tanto per noi stessi, per il nostro piacere soggettivo: è invece come sentire la profondità del mare, l’impulso al coinvolgimento, divenire la musica stessa. Questa fusione, questo divenire la musica, è l’inizio stesso del cammino. Ci affidiamo senza aspettarci niente, aspettando che la musica parli da sola.

Claudio Billi

 

 

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